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Uscirne vivi di Alice Murno

USCIRNE VIVI di Alice Murno

Non amo particolarmente gli autori che scrivono racconti, perché mi pare di stare in compagnia dei protagonisti troppo poco: è come quando ti trovi in una qualsiasi sala d'aspetto, e cominci a guardarti intorno, osservi le persone che dividono l’attesa con te.

Capita che il tuo vicino di sedia sia un tipo interessante, allora intavoli una conversazione piacevole con lui, ma se dopo poche parole di minuti condivisi se ne va, dispiace. Rimane il segno con attorno la polvere, come quando sposti un oggetto rimasto li per anni.

Ecco, questa metafora la applico anche ai racconti: se dopo poche pagine il protagonista interessante ti ha accompagnato velocemente alla fine del racconto, rimane un senso di incompiuto, di voler leggere ancora di lui e della sua storia, e ha lasciato un segno, indelebile.

Con un romanzo, c’è tutto il tempo di conoscere a fondo il nostro vicino di sedia, anche se è fatto di pagine e inchiostro.

Con la scrittura della Munro, questo non succede.

I suoi incipit ci accompagnano subito dentro una storia, come se noi (insieme a lei) sapessimo benissimo cosa ci ha portato qui, sapessimo l’antefatto, il prima, quello che ci ha condotto sin li.

Lei premio nobel per la letteratura nel 2013, lei canadese, lei che ha scritto un unico romanzo, “Lives of girl and woman”,  lei già vincitrice per ben tre volte del Governor General’s Award, il più importante premio letterale canadese, lei donna, lei che decide che sarebbe stata una scrittrice di racconti e non di romanzi (ha dichiarato di prediligere i racconti brevi perché aveva poco tempo per scrivere e tre bambine a cui badare),  lei che decide di scrivere alla vita con la sua tredicesima raccolta “Uscirne vivi”, che avrebbe il titolo  “Dear life,…” cioè Cara vita (e detto tra noi, non ho mai condiviso questo modo di cambiare il titolo ai libri quando vengono tradotti in altre lingue).

Lei che racconta storie confezionate in piccole perle di parole che sfidano la vita, letteralmente, e  ci incita ad osare a vivere talmente intensamente da uscirne vivi.

Da cosa? Ma dalla vita, ovvio, con la vita e per la vita, con le sue sfide, i suoi rischi,  le domande inattese, le emozioni, quest’ultime definite da lei stessa “materiale radioattivo”.

Ogni racconto ci lascia la sensazione intensa di uno scampato pericolo, mai palesato, ma insito nella vita stessa di ogni giorno.

Delle relazioni umane  leggiamo attraverso la vita quotidiana, inframmezzata da  pensieri, emozioni dei protagonisti che interrompono segreti e scopriamo che con tutto ciò possiamo convivere, ed uscirne, appunto,  vivi.

La vita è difficile da percorrere, ma uscirne vivi è necessario,  per attraversarla indenni e riuscire ad essere felici.

La caratteristica della Munro è quella di scrivere di persone qualunque in un momento qualunque della loro vita, perché a volte, io penso,  sono le persone che nessuno immagina che possono fare certe cose, quelle che fanno cose che nessuno può immaginare.

Questa, è la potenzialità di ogni attimo della vita di ogni giorno: uscirne vivi ci dice che la felicità costa, ma è possibile più del dolore.


Quando si ama


                                                                             Vi propongo di ascoltare, almeno una volta,

                                              "Una mattina" di Ludovico Einaudi mentre leggete queste righe,

altrimenti non potrete capire del tutto lo spirito che le pervade.

E’ come se,  procedendo nella lettura di un libro ometteste di leggere

 volutamente alcune pagine.

 

Non capireste appieno la storia.

Grazie.
 

Una sera d'estate, in quel tenero momento quando il vento si posa e passeggiare in spiaggia assume quasi una forma di ascolto, si trovarono vicini a riposare su uno scoglio un gabbiano e un piccolo granchio.
Erano vecchi amici, e si trovavano spesso su quel sasso ad osservare la luna piena che sorge dal mare.
"Quanto è bella la luna, non mi stanco mai di guardarla", borbottò il gabbiano.
"Si si, è proprio bella quando è innamorata" ticchetto' zampettando il granchio.
"Innamorata? Come può mai essere innamorata la luna? Questa è bella!! E di chi, poi?" il gabbiano rise, se mai il becco poteva schiudersi in un sorriso.
Il granchio girò su se stesso per veder bene il suo amico "Ma davvero non sai la storia della luna in amore?" allargò gli occhietti e le chele.
"No" ribadì sorpreso il pennuto "racconta dai" e piegò la testina per inquadrare meglio la luna.
"Si racconta che la luna sia da sempre profondamente innamorata del mare. Lei, dopo aver illuminato e giocato con la sua luce tra le onde, si era dichiarata a quel mare. Ma lui, non senza rammarico, le aveva  confidato di essere un tenero amante della sua innamorata, la spiaggia.
Per interminabili giorni la luna aveva assistito al sensuale ripetersi delle onde che lambivano la sabbia, ora con dolcezza, a volte con piccole carezze di schiuma, a volte con rabbioso desiderio. Anche se parevan litigare, il mare tornava a lei con ogni onda, con un susseguirsi implacabile.
La luna si chiese il motivo di quell'amore e per tanti pleniluni, specialmente in estate, si fece rossa di invidia e pallida di rabbia in inverno".
Il granchio si fermò, e il gabbiano posò lo sguardo su di lui "Ma allora adesso la luna odia il mare?" chiese al piccolo amico, che rispose scuotendo le chele, dato che con la testa non era proprio possibile
"No, no, non puoi smettere di amare una persona, anche se lei non ti ama".
Poi la indicò nuovamente con tutte le zampette del lato sinistro, essendo mancino "Guardala: essa è rosa d'amore stasera. Si dice che a guardarla puoi scorgere un viso, io vedo sempre gli occhi di un essere innamorato. Non c'è rancore ne odio, chi ama non prova risentimento. Guarda come coccola le onde del mare con la sua luce dolce, osserva come fa brillare anche la più piccola increspatura, vedi come la sua presenza rende tutto più dolce.
Questo fa chi ama: rende più bello il suo amato, anche solo con un pò di luce riflessa dal sole. In fondo non è questo che vogliamo, che le persone che amiamo siano felici?" concluse.

Quando ami intensamente una persona, non puoi smettere di farlo. Puoi continuare a vedere il susseguirsi di onde della sua vita, come il tuo amore si sussegue un giorno dopo l'altro, anche se lui o lei non saprà mai, che sei prorpio tu, a creare le maree con le fasi del tuo essere, proprio come la luna crea con il proprio movimento quelle onde tanto amate.
                                                                                                                      

                

Gli occhi che profumano di cielo

A GRETA

Questo mondo, è un mondo grande, in cui vivere.
Ma è altrettanto grande il cielo che lo sovrasta.
Se guardo il tuo sorriso, le piccole manine, gli occhi allegri, penso alle potenzialità di una piccola vita che viene al mondo.
Come il cielo si rivela ogni giorno diverso, così la vita si rivela ogni giorno differente.
Un bambino ha scritto: caro Gesù, non credevo che il viola e l'arancione stessero bene insieme, ma ieri sera ho visto il tramonto che hai fatto, bellissimo.
Così il cielo così la vita, ci sorprende con sfumature che non credevamo possibili, ma che alla fine  arrivano al cuore.
Godere di quelle sfumature diventa un'arte,  vedere oltre i banali accostamenti diventa un saper vivere.
Guarda il cielo, cara Greta, guarda le nuvole, divertiti a scoprire le tante figure a cui somigliano, e capirai che la gioia che si cela dietro ad ogni cosa, che ogni giorno il cielo offre spunti per cui sorridere, certi dell'amore che ti circonda, come Colui che ha creato il mondo ci circonda d'amore.
Basta guardarlo con occhi curiosi e divertiti, come i tuoi, che profumano di cielo.
Buona vita, cara Greta.

La serenita'

"Ho cercato per tutti questi anni la felicità, ma essa e' riottosa e sfuggente, non è luce, assomiglia più al fuoco di un cerino, dura un attimo.
Penso di avere una sola cosa buona del mio carattere, io entro in profonda empatia con le persone, leggo dentro l'anima di chi mi sta davanti, non posso farne a meno, fa parte di me. Pero' se ti porgo la mano, non la ritraggo più e ti sono vicino sempre, in ogni circostanza.
Ho amato tanto nella mia vita, profondamente, ma le persone che ti stanno vicino, quando tu le spogli di tutto con un solo sguardo e rimangono davanti a te con la sola onestà addosso,  devono essere se stesse, fino in fondo. E preferiscono voltarti le spalle, che affrontare se stesse specchiate nel tuo sguardo.
E, fin'ora, sono tante quelle che hanno preferito allontanarsi e lasciarmi sola.
Allora arriva il momento in cui tutto ti delude: le persone che ami, la vita, il susseguirsi delle solite cose, anche la fede tramonta.
Senza una meta,  sono inciampata in una parola, che sottintende un modo di vivere: spiritualità.
Essa non ha nulla a che fare con la religione.
Una delle tante definizioni che cercano di spiegarla e che mi è piaciuta più di tutte è la seguente: avere Dio dentro.
Essa e' uno stato d'animo che implica stare bene con se stessi e in armonia con gli altri.
Altro non serve"
.
Le due effe, di Marina Andruccioli

...Tutta colpa di un libro!


Ci sono persone che scelgono un libro dalla copertina, altre per la notorietà dell’autore, oppure in base al genere preferito; altre ancora si lasciano convincere dalla trama sulla quarta di copertina.

Personalmente ho due modi di scegliere: il primo è leggere le dediche all’inizio del libro, il secondo è la genesi o la serie di eventi che ha portato l’autore a scrivere quel libro. “Tutta colpa di un libro” appartiene decisamente alla seconda categoria.

Questo romanzo è stato un caso letterario in America, terra dell’autrice Shelly King. La storia ci racconta come nel 2012 la King, amante dei libri usati, si sia recata in un negozio di libri di seconda mano ed abbia adocchiato una vecchia edizione di “L’amante di Lady Chatterley”,  rimandandone però l’acquisto; torna dopo qualche ora, e il libro è sparito. Da qui l’idea che caratterizzerà il suo romanzo.

Nel 2013 manda il manoscritto a diversi editori e tutti lo vogliono. Nel gennaio del 2014 dopo una lunga guerra all’ultima proposta, finalmente un editore si accaparra i diritti e il romanzo viene dato alle stampe, e da marzo 2014 in poi è un susseguirsi di traduzioni in tutti i paesi del mondo, che ne decreta il successo.

Con una storia così alle spalle mi sono davvero incuriosita, ed il meritato successo di questo romanzo è presto detto: una storia brillante, non consueta e nemmeno convenzionale; ci si immedesima subito nella protagonista, ma soprattutto… va bene, va bene, procedo con ordine.

La protagonista, una giovane di nome Maggie, ed il suo amico del cuore, Dizzy, tentano la fortuna nella Silicon Valley. Licenziata, la ragazza trova conforto passando tutta la giornata nella lettura di romanzetti rosa alla Dragonfly, una libreria che vende solo libri usati gestita dal suo vicino di casa Hugo. Insieme a Maggie seduta ore e ore a leggere sull’unica poltrona posizionata proprio in vetrina, anche noi iniziamo a conoscere i personaggi che ruotano attorno alla libreria. Un giorno Dizzy le suggerisce di partecipare ad un incontro presso un club letterario presieduto da una donna influente che potrebbe aiutarla a riottenere il suo posto di lavoro. Il libro di cui si parlerà è “L’amante di Lady Chatterley”.

Hugo le dà l’unica copia usata del libro che è su uno degli scaffali impolverati della Dragonfly.

Ed è qui che la magia di questo libro si schiude: la King dà vita ad un intreccio in cui i protagonisti ed i fatti che capitano loro, come i rami di un gelsomino, si legano l’un l’altro sostenendosi.  La storia diventa così una sovrapposizione di vite che, come le foglie, si coprono e celano fiori sorprendenti di emozioni, casualità, innamoramenti e scelte. I colpi di scena a cui l'intreccio conduce avranno un impatto forte sulla vita di tutti i personaggi che ruotano attorno alla Dragonfly.

Aggiungiamo a tutto questo il mistero: sulla copia consunta di “L’amante di Lady Chatterley” Maggie scopre una fitta corrispondenza tra un uomo e una donna che non si conoscono, Henry e Chaterine. Sono parole d’amore e di corteggiamento che culminano nella richiesta di un appuntamento, e qui la corrispondenza si interrompe, lasciando Maggie piena di curiosità.

Chi sono questi due? Si saranno incontrati? Sarà scoccata la scintilla? Queste e altre mille domande si farà Maggie, mentre la sua vita prenderà una svolta inaspettata e scoprirà infine chi sono i due sconosciuti amanti.

Beh, è ovvio che per gli amanti dei libri, come me, questo modo di uscire ed entrare dalla “nostra” realtà a “quella dei libri” è affascinante, ma aggiungerei che il libro si dipana tra personaggi ben costruiti su una trama ben congegnata e con un finale originale.

Inoltre lo spessore delle frasi che si scrivono Henry e  Chaterine dimostra ancora una volta quanto bisogno di sognare abbiamo, e per sognare non intendo starsene con la bocca aperta e gli occhi fissi nel vuoto, ma di nutrire quella magica e poco conosciuta parte di noi stessi che si chiama anima.

Come al corpo diamo del cibo, alla mente diamo pensieri, all’anima per sfamarla dovremmo dare delle emozioni.

“L’amore trova per noi quello che non sappiamo di volere” scrive Henry.

“E io ti ho trovato qui” risponde qualche pagina più in là Catherine.

Hey? Io sono Henry. Chi sei tu?

Ciao, Henry, io sono Catherine

Catherine, grazie per aver scritto. Sono sempre più curioso. Henry

Mai come me. Perché L’amante di Lady Chatterley? Perché cominciare a scrivere su questo libro? Catherine

In realtà non lo so. È solo che ho visto questo povero libro devastato e mi ha fatto pena, credo. Pensavo di fargli un po’ di compagnia. Mi è sempre piaciuto questo romanzo. Lo sapevi che il titolo originale era Tenerezza? Adoro la dolcezza del loro amore. Soprattutto la lettera di Mellors alla fine. “Se potessi dormire con le mie braccia intorno al tuo corpo, l’inchiostro potrebbe starsene nella bottiglia”. Henry

Eh sì, adesso immagino che l’unico dilemma sia se leggere prima “Tutta colpa di un libro” o “L’amante di Lady Chatterley”.

A voi la mossa.

 

Tutta colpa di un libro di Shelly King. Edizioni Garzanti, pagine 244

Lettera a mio figlio sulla felicità, di Sergio Bambaren


In questi ultimi mesi mi sono  dedicata alla lettura di libri che, per un verso o per l’altro, trattano di felicità.

Facile sarebbe dire che è un’esigenza dettata dal periodo che stiamo vivendo, il telegiornale sembra il diario di bordo di un Risiko immaginario, e la cronaca della carta stampata non è da meno.

La molla che mi ha fatto decidere di scrivere su questo tema, in effetti, è molto più umile dell’analisi di tutto ciò.

Un pomeriggio, mentre camminavo  presa dai miei pensieri, un suono inusuale ha attirato la mia attenzione. Mi sono fermata, cercando di capire cosa mi aveva colpito e sorpreso.

Guardandomi attorno, ho identificato subito quel suono che non sentivo da tanto tempo: un signore mentre passeggiava stava fischiettando. Addirittura aveva un’ombra di sorriso sul viso!

Accidenti, ho pensato, quella è una persona felice.

Un panda, un gorilla dell’etologa Fossey, una stella alpina, insomma una vera e propria specie in via di estinzione.

Ho rimuginato per giorni su questo incontro, ed ho iniziato ad osservare le persone intorno a me, e vedevo persone infastidite, arrabbiate, per lo più nervose o scocciate, spesso imbronciate.

Felici, no davvero.

Allora, sempre più incuriosita, ne ho cercato la definizione: la felicità è lo stato d’animo (emozione) positivo di chi ritiene soddisfatti tutti i propri bisogni. L’etimologia significa abbondanza, ricchezza, prosperità.

E subito, lo so, scatta l’associazione con le cose materiali. Se “possiedo” molte cose, allora sono felice. In realtà, credo che il concetto si riferisca anche alla sfera emotiva, non solo a quella materiale. E come si fa, oggi, che siamo immersi in così tanti problemi, ad essere felici?

Per trovare risposta a questa domanda, ho cominciato a leggere libri.

Ho scoperto con piacere che ad Harward, prestigiosa università americana, si tiene regolarmente un corso pratico di psicologia positiva definito “corso per la felicità” tenuto da Tal Ben-Shahar. Allora, incuriosita, ho letto il suo libro “Più felice”, un manuale pratico per essere felici nella vita di ogni giorno.

Essendo fuori catalogo, non è di questo libro che voglio parlarvi ma di “Lettera a mio figlio sulla felicità”di Sergio Bambaren.

L’autore, noto al pubblico per  il suo primo libro “Il delfino” che ha ottenuto un successo mondiale, definisce questo libro (scritto per essere donato al figlio, ma anche a noi lettori) una mappa per affrontare il viaggio più importante in questa vita, ovvero quello verso la felicità.

Bambaren è un autore australiano, nato in Perù e attualmente vive negli Stati Uniti. Esperto surfista e ambasciatore di battaglie ecologiste ha girato il mondo in cerca del vero significato della vita.

Quando è nato suo figlio, Daniel, decide di condensare in un libro quello che, nel bene e nel male, è la sua esperienza delle prove che lui, come tutti noi, dobbiamo affrontare ogni giorno in questa vita.

Questo libro si è aggiunto subito a quelli che ho già acquistato in questi anni per mia figlia, una sorta di piccola biblioteca che le regalerò quando sarà un pochino più grande.

Perché ai nostri figli insegniamo a leggere e scrivere, a far di conto, ad essere educati, ma l’ABC delle emozioni, quello no. Siamo tutti fai-da-te in questo ambito, con il risultato spesso di essere adulti confusi e (forse) poco felici.

Io mi impegno ogni giorno ad insegnare a mia figlia a distinguere gli stati d’animo, le sensazioni, a coltivare e sentire le emozioni, quelle belle, quelle che ci rafforzano e ci fanno stare bene anche quando la vita ci mette in ginocchio o a dura prova.

Agire, non reagire ad ogni stimolo esterno, e lo fai solo se sei consapevole di cosa stai provando.

E allora, pare, si può imparare anche ad essere felici, se si sa come fare.

Ci si allena, come a leggere e parlare una lingua sconosciuta, si traduce dal noto al meno noto.

Non è facile, ma neanche troppo difficile, proprio come imparare a fischiettare.

Magari non ne abbiamo nessun motivo, ma scopriamo che farlo ci mette di buon umore.

E il segreto per esser felici, per quel che ne ho capito io, è che non esiste un’unica ricetta: ognuno aggiunge e toglie  ingredienti all’impasto che chiamiamo Vita.

Forse il segreto è tutto qui.

 

"Ogni giorno" di David Levithan recensione


La letteratura per ragazzi è una continua scoperta per una lettrice assidua come me.

Dopo The Giver di Lois Lowry, Oh boy! e Nodi al Pettine di Marie-Aude Murail (che vi consiglio vivamente anche se, come me, non siete adolescenti) una cara amica mi ha suggerito di leggere “Ogni giorno”.

Affascinante, coinvolgente ed originale.

Ecco, la mia recensione di questo libro potrebbe essere tutta qui.

David Levithan – classe 1972, scrittore americano già vincitore di numerosi premi – tesse con la delicatezza di un merletto questa storia avvincente e divertente: A., un’entità non meglio definita, ogni giorno da quando è nato si sveglia in un corpo diverso.

Maschio o femmina, l'unica cosa che accomuna tutti i suoi risvegli è l’età del corpo che lo ospita, che coincide con la sua: 5994 giorni, ovvero sedici anni e qualche giorno.

A. cerca di non interferire affatto, per quel giorno, con la vita del corpo che occupa, proprio per non modificare l’esistenza del ragazzo o della ragazza di turno; sente se stesso, ma può “accedere” ai ricordi e ai sentimenti dell’ospite, se non altro per ricordarsi i nomi dei famigliari e degli amici, per arrivare a scuola, e per tornare a casa.

Vive il presente, ci spiega ad un certo punto A.: all’inizio era difficile vivere senza creare legami duraturi, e senza poter mai decidere sulla vita degli altri. Si definisce un vagabondo; ci racconta che non deve lasciare nulla di sé all’ospite, che la giornata deve passare senza che A. lasci tracce di sé,  anche se, ogni volta, c'è una cosa porta via con sé, ed è la conoscenza:

“Imparo. Capita che m’insegnino qualcosa che mi è già stato insegnato dozzine di volte, ma capita anche che mi insegnino qualcosa di nuovo. Accedendo a un corpo, a una mente, scopro quali informazioni vi sono custodite, e quando lo faccio, imparo. La conoscenza è l’unica cosa che tengo con me quando vado via”.

Ma un giorno, abitando un ragazzo di nome Justin, A. si innamora di una ragazza, della ragazza di Justin.

E le cose cambiano.

La storia parte proprio da qui, e vi lascio il piacere di farvi avvolgere da questa storia avvincente e delicata.

Quello che vi lascio io, invece, dopo aver condiviso con A. questo spazio che ospita le mie riflessioni, è l’accento sui valori di cui è ricco questo libro.

L’empatia è una caratteristica che A. deve sviluppare per immedesimarsi subito con la persona che lo ospita e con gli estranei che lo circondano per quel giorno di vita, e per adattarsi ogni giorno ad un corpo diverso: più grasso, malato, femminile e maschile. Deve concentrarsi sul presente, invece di rimuginare sul passato o sognare il futuro che non esiste: il passato e il futuro sono complicati, ci dice A., il presente è semplice.

Ecco, questo è A.

Un libro, questo, che ogni sedicenne dovrebbe leggere, e ogni adulto che è stato sedicenne dovrebbe aver letto.

Anch'io, come A., chiudendo questo libro ho tenuto con me la conoscenza di una delle tante cose che condivido con il suo modo di vedere la vita, e lascio che siano le sue parole a spiegarlo a voi:

“Ognuno di noi è un’opportunità: i romantici disperati lo percepiscono con maggior precisione, ma anche gli altri alla fine devono arrendersi al fatto che l’unico modo di cavarsela in questa vita è vedere ogni persona come un’opportunità. Il suo modo di essere si basa su ciò che più conta per me: cortesia, creatività, partecipazione nel mondo; un senso del dovere nei confronti delle opportunità che gli stanno attorno. Non ho molto tempo prima di andarmene da questo corpo, l’orologio non la smette di ticchettare. A volte non lo si sente, altre invece lo si sente eccome”.

 

Ogni giorno, David Levithan, Rizzoli 2012 pag. 370

Ciao Narciso, la vita mi aspetta....


E questo è il mio racconto nella raccolta "Il dottor Narciso Vaffa e le sue donne", autrici varie Gox edizioni 2011 pag.220

Capitolo 16

"Ciao Narciso, la vita mi aspetta" 
           di Marina Andruccioli

Ci metto quella mezz’oretta buona, da casa, per arrivare fin qui, per venire a trovarti, Narciso caro, amore mio, e mi pesa, eccome se mi pesa, Narciso. Ma vengo ogni mattina, a trovarti. Anche se ho settant’anni suonati, ce la faccio ancora a camminare, vedi amore mio? Eccomi, sono arrivata, fammi un po’ di spazio, che mi siedo. Uffa, mi sorridi sempre quando vengo a trovarti, amore mio. E poi quel completo gessato che mettevi sempre, oddio come lo odio, oramai mi da i nervi vederlo ogni santo giorno che vengo a trovarti. Ti ricordi, Narciso? Ti vestivi sempre come se fossi un testimone di nozze, mio amore, sempre bellissimo, con quei colori sgargianti, perché non bastava la bellezza del tuo viso a farti notare, no, dovevi metterti al centro dell’attenzione con il tuo vestito migliore, all’ultima moda, ma non bastava ancora, vero? Come un gallo cedrone sceglievi anche i colori più sgargianti per metterti in mostra. E io, dietro a tanta magnificenza ti seguivo in perenne eclisse. Anche adesso, Narciso caro, ti guardo e sbatto gli occhi, abbagliata dal tuo fulgore. Ti do un colpetto con la mano. Non rispondi, eh? Già, le provocazioni non ti piacciono. Eri tu che giocavi in attacco, eh? Le tue donne erano tutte trofei da esporre, da sventolare come vessilli sotto ai nasi dei tuoi amici, il branco del bar da giovane, il branco dell’ufficio subito dopo, il branco del circolo immediatamente dopo e poi appresso i soci del golf, branco pure quello. Eh, Narciso? Ti ricordi cosa ti inventavi per farti la pollastra di turno? Vado a cena dai miei, cara, tu riposati. Vado a trovare dei cari amici, ma tu ti annoieresti. Vado ad una cena di lavoro, tu mi faresti sfigurare, non hai mai niente da metterti che si abbina ai miei completi, sai cara? E io incassavo colpo su colpo. Già. Il Dottor Narciso Vaffa e le sue donne Il Dottor Narciso Vaffa e le sue donne La tua mamma ti conosceva bene, eh? Ti ha dato un nome che diceva tutto, di te: Narciso. Perché tu affrontavi la vita come un ingordo, sfidavi la vita con la strategia delle buone parole e delle buone ragioni, peccato che erano sempre e solo le tue. Sembra proprio che nessuno ti abbia spiegato cosa sia l’umiltà: sei egocentrico e meschino, e non ti sei mai reso conto che sfrutti gli altri, li trascuri, e hai sempre preteso da me, tua moglie, che ti servissi e riverissi senza avere in cambio nulla. Hai sempre pensato in grande, tu, caro il mio Narciso. Di larghe vedute, eri dedito all’esplorazione, dei luoghi e delle donne del luogo. Inoltre non ti accontentavi della solita bistecca, dovevi pasteggiare con i cibi più esotici, le carni più ricercate, il vino più raffinato. Ti attorniavi sempre di persone interessanti, d’altronde sei un uomo di ampie capacità, colto, intelligente, di grande savoir fare, istrionico e ottimo intrattenitore. Però il tempo passato con te è stato anche bello, a volte: sei simpatico, seduttivo, allegro, colto e raffinato. Il tempo che passavi con me, quando eravamo soli, era piacevole. La tua dote il fascino, un fascino ipnotico, la seduzione la tua magia. Così mi trattenevi a te, Narciso, tu la mia droga a cui non riuscivo a rinunciare. Ma tutto cambiava quando c’erano gli altri, quando c’era una nuova preda, quando una donna attirava la tua attenzione, quando c’era una nuova sfida. Allora tu cambiavi: scontroso con me e mellifluo con lei, adulatore con lei e rozzo con me. Poi catturatala all’amo, tornavi da me e io riprendevo posizione al centro della tua galassia. Già, perché per te Narciso mio, la ricerca dell’amore non è stabilità emotiva, ma ricerca del piacere, e i tuoi tradimenti erano giustificati da un’abile strategia di spiegazioni e di razionalizzazioni. Non era mai colpa tua, mio piccolo Narciso: lei ti aveva provocato, oppure avevi alzato troppo il gomito e non hai saputo resisterle, oppure ne andava del tuo orgoglio maschile, insomma un bugiardo nato, si, nato e vissuto mentendo per avvalorare le tue tesi.
Caro Narciso Vaffa, vedi che bel sole, questa mattina, mentre me ne sto seduta accanto a te. Perché sono rimasta tutti questi anni sposata a te, subendo umiliazioni e tradimenti, sentendomi una fallita per tutti questi anni? Semplice, ho aspettato per anni una mattina come questa. Per venirti a trovare, qui, caro Narciso, al campo santo. Perché la vendetta è un piatto che si serve freddo, Narciso, e si deve avere pazienza per assaporarne appieno il sapore. Ogni mattina nonostante i miei acciacchi vengo qui, ti vengo a trovare, mi siedo sulla lapide accanto a te, mi faccio spazio spostando la tua foto che ti ritrae bello con uno dei tuoi raffinati completi, quel sorriso lucente e ammaliatore. Ecco amore mio, caro Narciso, ti ho cambiato i fiori, sono ricercati e belli e strani, mica i gladioli e i crisantemi delle altre tombe, nossignore, belli e unici come piaceva a te. Ho imparato bene, no? Ti odio e ti amo, come ho fatto per tutta la vita, penso, mentre mi rimetto a fatica in piedi e ti guardo mentre mi sorridi dalla foto. Ridi pure, caro Narciso, ma la più felice adesso sono io: perché tu sei li, ma io sono qui.
Io sono viva e tu sei li dentro, e non c’è tanto da sorridere, sai? E per la prima volta nella mia vita l’ho vinta io. E questo mi ripaga di tutti gli anni che ho vissuto con te.
Ciao Narciso, la vita mi aspetta.

C'era una volta....

C' era una volta una bimba di nome Alice, che se ne stava sulla sua nuvoletta vista mare in compagnia del suo angelo custode. Un giorno, noto' che alcuni bambini con cui giocava tra le soffici nuvole non c'erano piu'. Allora chiese spiegazioni al suo angelo che rispose sorpreso:"Sono andati dalla loro mamma e dal loro papa' che hanno scelto!". Meravigliata, la piccola chiese "Mamma? Papa'? Ma cosa sono?". L' angelo lo spiego' alla bambina, che rispose "Anche io voglio un papa' e una mamma!!". Allora l'angelo sorrise e, passando un binocolo alla bimba disse "Ma certo. Pero' prima devi sceglierli come piu' ti piacciono. Ecco, guarda sulla Terra con questo e fai la tua scelta". La bimba prese ad osservare le persone sulla Terra. Questa mamma no, lavora troppo, non avrebbe tempo per stare con me. Questa no, urla sempre! Nooo, quella fuma. Nemmeno questa, non sa leggere le favole. Poi con un gridolino disse "Eccola, questa mi piace!" e passo' il binocolo all'angelo. "Guarda angelo, quella mamma Marina li mi piace, si, voglio essere sua figlia!". "Ottima scelta, piccola mia, ma cosa ne dici del papa'?". Alice riprese ad osservare, e vide che anche il papa' Andrea non era male, e battendo contenta le manine disse "si, voglio proprio far parte di quella famiglia!". L'angelo esegui' il suo desiderio, ma la segui' comunque sulla Terra, non si sa mai: un paio di ali ..emh, occhi...in piu' a vigilare sul piccolo elfo non ci stanno poi tanto male... E questa e' la favola che racconto al piccolo elfo quando mi chiede com'è nata, e la ringrazio sempre per aver scelto proprio noi!

Recensione de "Il miglio verde" di Stephen King

Per questa estate "da brivido" per l'alternarsi delle temperature, ho pensato ad un libro che ho letto anni fa, ma che rileggo volentieri: “Il miglio verde”, di Stephen King. Questo famosissimo autore statunitense, soprannominato il re del brivido, è noto al grande pubblico anche per i film tratti dai suoi libri di genere horror come “It”, “Carrie” o il celeberrimo “Shining”, film di Kubrick con uno straordinario Jack Nicholson. Certo, la pazza estate che stiamo vivendo ci ha già regalato brividi ad oltranza con questo alternarsi di temperature che mi ha portato a credere che il cambio degli armadi sia oramai una consuetudine assolutamente inutile, quindi lascio l'horror agli estimatori del genere, e vi propongo invece un King differente, lo spettacolare autore che ha dato vita con la sua penna ad un libro come “Il miglio verde”, un romanzo pubblicato nel 1997, ma uscito nel 1996 in sei puntate mensili. La storia, ambientata negli anni Trenta, ci conduce tra le celle del Blocco E del carcere di Cold Mountain, nel blocco della morte, la zona del carcere dove sono detenuti i condannati alla pena capitale. Il titolo prende il nome dal tratto del corridoio del carcere che conduce alla sedia elettrica, tratta che nelle altre carceri è chiamata ”l’ultimo miglio” e che nel carcere dove è ambientata la storia viene chiamata “il miglio verde” per via del colore del pavimento. Il libro ci parla in prima persona, ed è il capo delle guardie del braccio della morte che ci racconta la storia della sua vita da quando arriva in carcere un condannato a morte, John Coffey, un uomo di colore, dotato di poteri sopannaturali. Chi conosce King saprà già che spesso i protagonisti dei suoi romanzi sono dotati di “superpoteri”, proprio come Superman o Batman, ma sono eroi in negativo, nel senso che sono succubi dei loro poteri, anche se tentano di usarli per aiutare il prossimo, e sono spesso derisi ed emarginati dalla società in cui vivono. Ho scelto di parlarvi di questo libro, perché si discosta decisamente dal genere horror al quale l’autore ci ha abituati, delineando una storia di amicizia e di valori grandi, ambientata in un luogo borderline, e anche questa è una caratteristica di King: portare una situazione allo stremo, e sembra dirci con il ghigno con cui siamo abituati a vederlo nelle foto che lo ritraggono “e adesso vediamo cosa succede”. Quindi, metti la tensione che sale in un luogo chiuso senza via di scampo, metti degli esseri viventi che hanno commesso degli sbagli e stanno aspettando di pagare con la vita gli errori commessi, metti il tempo che passa lento ma inesorabile verso un appuntamento con la morte deciso dal'uomo e non dal fato che solitamente decide per tutti noi, metti un'abbondante dose di umanità che non ti aspetti nei carcerieri e, in ultimo, mischia tutto con il soprannaturale e il risultato è un libro potente e commovente, che ci richiama alla coscienza lo spinoso tema della pena di morte che di recente è tornato alla ribalta per l’agonia protratta durante l'esecuzione per iniezione letale di un condannato a morte in USA. Posso asserire con certezza che in questo romanzo King dimostra di saper coniugare brividi ed emozioni; sono pagine ricche di sensazioni forti che commuovono e toccano nel profondo il lettore. A mio avviso, nonostante sia conosciuto come scrittore di genere horror, questo autore riesce a costruire l’umanità dei personaggi come pochi altri sanno fare. Il romanzo è stato adattato per il cinema nel 1999 ed interpretato da un superbo Tom Hanks nel ruolo di Paul Edgecombe e da Michael Clarke Duncan come John Coffey; sicuramente da vedere, anche se si è letto il libro.
"Da quando sono ritornata dalla crociera piove. Sento battere le gocce sui vetri delle finestre della mia camera da letto. È primavera, è uno di quegli acquazzoni che annunciano la bella stagione dei fiori che arrivano all’improvviso. Esco in giardino e annuso l’aria. Lo faccio sempre, quando piove. Da piccola, la mia mamma, durante un temporale mi fece notare una cosa: «Hai notato Emma, che quando piove l’aria ha una fragranza particolare?» mi prese tra le braccia e uscimmo in giardino a cercare quell’aroma. «Il profumo della pioggia è unico, sai, perché porta con sé sulla terra il buon odore che c’è in paradiso». Da allora esco all’aperto ogni volta che piove per annusare la fragranza del paradiso. La lista dei sogni, di Marina Andruccioli

Greta e il daimon, di Marina Andruccioli

"Fabio era rimasto sulla porta, e mi guardava, aspettando. Mi accorsi di lui quando sentii il suo profumo. Le farfalle che si alzarono in volo nella mia pancia stavano cercando il fiore, la fonte di quel profumo. Ancora una volta, il mondo è scomparso. Via i colori, via i suoni, via i mobili del mio ufficio, solo i suoi occhi. E il mio amore. E’ stato un colloquio senza parole, quel pomeriggio. Si, non ci siamo parlati, ma ci siamo detti tutto. Io mi sono alzata e lui si è avvicinato. Ci siamo seduti sul divano azzurro del mio ufficio, perché ho voluto arredarlo come un salotto, volevo che si respirasse aria di casa, non di lavoro. Non so dire quanto tempo sia passato, istanti o minuti. Siamo rimasti in quel limbo di tempo guardandoci negli occhi, godendo della nostra vicinanza, del calore che senti appena quando sei vicino ad un’altra persona, occhi negli occhi per accarezzarci l’anima, ma soprattutto assaporando in pieno quello che stava per succedere. L’attimo potenziale stavamo vivendo, che è ricco di tutte le promesse e meraviglie del mondo. E’ l’istante in cui tutto è sospeso, l’istante meraviglioso di nulla assoluto. Come quell’attimo che precede l’orgasmo, è infinitamente più bello e appagante dell’orgasmo stesso, dove tutto è compiuto e già vissuto. Le carezze, i baci, l’energia che cresce e ti pervade, ti travolge poi. Ma c’è un istante, uno solo, in cui tutto si ferma, tutto tace: è quello l’unico momento in cui l’anima si manifesta, si rivela, e puoi sentirla, sapere com’è fatta. L’istante prima del piacere supremo. Il tempo tra me e Fabio, quel pomeriggio, è diventato un nostro spazio tra le nostre vite, una realtà parallela, solo nostra. Ero conscia che lui era in attesa, io dovevo prendere in mano la situazione, guidarlo nel mio mondo, quel mondo che volevo fargli conoscere, così ci siamo incamminati insieme nell’esplorazione del nostro nirvana, del nostro sentire senza spazio ne tempo, perché fuori da quelle pareti c’era la realtà e il nostro amore li fuori non esisteva, non aveva corpo e spazio, non aveva un’identità. Un solo dito. Permisi al mio amore di avvicinarlo piano e delicatamente. Con l’indice accarezzai il suo polso, per salire lungo l’avambraccio e l’incavo del gomito dove la pelle è sensibile, scesi sul pollice, il palmo non aveva più segreti, accarezzai assaporando ogni spazio tra le dita della sua mano, per poi intrecciare le nostre mani. Occhi negli occhi, mentre la passione aumentava come i cumulonembi estivi all’albore di un temporale che spezza la quiete del nostro aspettarci. E’ possibile fare l’amore anche solo con un polpastrello, se l’anima spinta dal vento della passione si accoccola sulla pelle. Fare l’amore con il corpo è bello, si, ma fare l’amore con l’anima è consapevolmente completo. Quando due anime gemelle si riconoscono e lo accettano, e fanno l’amore con consapevolezza di ciò, è una meravigliosa altra cosa. C’è solo l’energia sessuale se si usa il corpo, coinvolgimento emotivo se c’è amore tra le due persone, ma se in più a destarsi è l’anima, l’amore diventa sublime. E’ totale, perfetto: consapevole di muovere energie elevate e appassionante. Quel pomeriggio abbiamo fatto l’amore, io e Fabio. E io, io che ero conscia e consapevole più di lui del luogo dove lo volevo portare, l’ho preso per mano e l’ho condotto in quel mondo sensuale che volevo esplorasse e conoscesse con me. Poco prima dell’orgasmo, ci siamo fermati. Ci siamo guardati negli occhi, io l’ho preso per mano, ho intrecciato le mie dita alle sue e l’ho condotto dove una femmina deve portare il suo uomo. Perché quella vetta di consapevolezza l’uomo la può raggiungere solo tramite l’amore e l’abbandono totale della sua donna al suo piacere. E questa esperienza, lascia il segno. Come scrisse una delle mie poetesse preferite, Alda Merini “E’ necessario che una donna lasci un segno di sé, della propria anima ad un uomo, perché a far l’amore…siam brave tutte”. Si, perché nel vero amore è l’anima che abbraccia il corpo. Ed è quello che ho fatto io quel pomeriggio. Credo fermamente che un’altra parte non è altro che una persona che ha un pezzettino della tua anima in se, ma quel pezzettino di anima è la tua, si, ma non ti conosce ancora, perché ha sempre vissuto con lui. Toccandola in questo modo, quando ti ha già riconosciuta, la gioia di essere di nuovo a casa si fonde con la tua e la sua, di anima, creando un legame indissolubile, una lega preziosa. Unica. Questa, è la magia delle altre parti. Incontrarne una, è un regalo prezioso. Ci vuole una buona dose di coraggio perché spesso ogni anima è già intrecciata alla vita di qualcun altro, ma si deve entrare in contatto con lei, per fondersi con quella persona perché è, ripeto, un dono prezioso per tutti e due. E’ un’esperienza che va vissuta ad ogni costo". Da Greta e il Daimon di Marina Andruccioli

"Il caso Jane Eyre"...ovvero ancora una mia recensione...

Il Caso Jane Eyre Di Jasper Fforde Cosa sarebbe successo se Renzo ne “I promessi sposi” avesse incontrato Casanova e quest’ultimo lo avesse convinto a non sposarsi? E se Dante avesse ricevuto in regalo una cartina da Virgilio che non poteva fargli da guida perché aveva da fare e la famosa frase “Mi ritrovai in una selva oscura che la diritta via era perduta” non fosse mai stata scritta, la Divina commedia di cosa parlerebbe? E ancora: e se Alice si fosse chiesta se soffrisse di allucinazioni e invece di lanciarsi all’inseguimento del coniglio bianco fosse invece andata in analisi, la storia di “Alice nel paese delle meraviglie” ci avrebbe narrato delle sue sedute dall’analista? Forse tutte queste domande se le è poste Jasper Fforde che ha brillantemente unito il genere comico, il giallo, il poliziesco, il fantasy, il thriller e non ultimo il genere classico in un unico libro: Il caso Jane Eyre. Tutti almeno una volta, terminata la lettura di un libro ci siamo detti che forse il finale lo avremmo cambiato, che quel determinato evento lungo le pagine lo avremmo modificato o che un personaggio particolarmente antipatico o cattivo lo avremmo cancellato volentieri da quelle pagine se avessimo potuto… Siamo in un 1985 surreale, dove Thuesday Next una detective, una detective letteraria per essere precisi, viene assoldata per indagare sulla scomparsa di un famoso manoscritto, il Chuzzlewit di Charles Dickens. Perché nella storia raccontata ne “Il caso Jane Eyre” esistono persone che possono viaggiare nel tempo, possono entrare ed uscire a loro piacimento dai libri dato che la barriera tra letteratura e realtà è stata abbattuta grazie ad una invenzione dello zio della protagonista. Ma soprattutto Thuesday si rende conto che persone senza scrupoli potrebbero impadronirsi di questa tecnologia e tentare di cambiare la storia dei libri come ci è stata tramandata, o rapire i personaggi o peggio ancora ucciderli e farli sparire dalla storia originale. Infatti lo zio Mycroft (un genio affascinato dal tempo e dalla sua elasticità e papà della tecnologia che permette di infiltrarsi fisicamente nelle opere letterarie) viene rapito da un criminale che riesce così ad impadronirsi della chiave per entrare ed uscire da un manoscritto originale e di poter manipolare la storia con la conseguenza che anche le copie esistenti in tutto il mondo seguiranno lo stesso destino nel medesimo istante. Tutto ciò potrebbe avere un gravissimo impatto sul patrimonio letterario dell’intera umanità: che senso avrebbe narrare delle imprese di Ulisse nell’Odissea se il protagonista se ne resta a pescare a Itaca perché un misterioso personaggio che compare solo in poche righe di pagina 24 lo convince a non partire ? E se il cattivissimo usuraio Scrooge ne “Il canto di Natale” di Dickens avesse bevuto non sapendolo un sonnifero sciolto in una tazza di latte sempre dallo stesso misterioso personaggio a pagina 10 e i tre fantasmi avessero cercato invano di svegliarlo? Questi classici della nostra letteratura cosa sarebbero diventati? La nostra eroina si trova proprio alle prese con il cattivone di turno che ruba un prezioso manoscritto, poi decide di far sparire un personaggio in un’altra famosa storia e non contento, infine, si intrufola tra le pagine del capolavoro della Bronte e rapisce proprio lei, la protagonista: Jane Eyre. Come scrive Fforte “Nel giro di trenta secondi dal rapimento di Jane, un primo lettore aveva notato con preoccupazione strani sommovimenti a pag.107 della sua edizione rilegata di Jane Eyre”. E sarà proprio l’altro protagonista, il burbero Rochester che aiuterà la nostra detective e le darà una mano a risolvere le indagini su questo misterioso criminale. Jasper Fforde è nato a Londra nel 1961 ed è il papà di Thurday Next, la protagonista in ben quattro libri, a cui ne aggiunge uno scritto a furor di popolo. Per chi, come me, adora leggere, questo libro è divertente e insieme affascinante come un gioco di specchi: la storia si intreccia con classici che abbiamo già letto e dei quali abbiamo ben in mente la storia, ma li rileggiamo con la fantasia dell’autore e ci si diverte davvero tanto davanti agli imprevisti e alle divagazioni che l’autore si prende sulle storie originali così come le conosciamo. Dalle citazioni, alle false paternità di libri attribuiti ad autori diversi, al poter sognare di entrare fisicamente in un libro…non so cosa mi abbia divertito di più, e vi assicuro che dopo aver letto “Il caso Jane Eyre” non riuscirete a guardare i libri con gli stessi occhi. Certo che se io potessi entrare in un libro sceglierei ad esempio tra i miei preferiti di aggirarmi tra le pagine di “La casa degli spiriti” di Isabel Allende per passare un po’ di tempo con Clara, poi mi piacerebbe sferruzzare un po’ di lana insieme a Miss Marple in uno dei gialli di Agatha Christie, certamente vorrei fare amicizia con Gregor Samsa ne “La metamorfosi” di Kafka, vorrei accompagnare tenendolo per mano lungo il fatidico miglio verde il protagonista dello splendido libro di Stephen King “Il miglio verde”, ma soprattutto vorrei essere li quando, a pagina 1053 della mia edizione di “Via col vento” di Margaret Mitchell, Rossella pronuncia la famosissima frase “Dopo tutto, domani è un altro giorno”. Ma potrei continuare all’infinito. E voi, in quale libro vi piacerebbe curiosare? “Il caso Jane Eyre” di Jasper Fforde Edizioni Marcos y Marcos pagine 378

"Le due Effe" di Marina Andruccioli

"Come ho potuto sperare di farti capire il mio mondo? Come può un uccello, che vola alto nel cielo, che vive d'aria, di spazi immensi, spiegare ad un topolino cosa sono le ali? Come posso spiegarti quello che vedo, prestarti i miei occhi e mostrarti quello che si vede dalla cima di un grande albero, a te, che davanti scorgi solo ciuffi d'erba e fiori e terra e i tuoi piccoli piedini? Come posso trasmetterti l'ebbrezza di cavalcare il vento, la forza del sentirsi liberi e quanto è bello tuffarsi nel vuoto, che la bellezza di ascoltare il fruscio tra le nuvole è una musica bellissima? A te, che sei ancorato a terra e non sospetti neppure che esiste una cosa chiamata cielo popolata da creature come me? Anche Dio sbaglia, a volte. Pretende che tu alzi gli occhi e scorga il cielo, che mi veda volteggiare lassù, mentre ti osservo e cerco in ogni modo di richiamare la tua attenzione. Pretende, si, che io possa trovare il modo o le parole giuste per farti capire la bellezza del mio mondo. Ma la tua natura, purtroppo, non te lo permette. Si, anche Dio può sbagliare, ma se lo fa è perchè si è solo intenerito nell'osservare il mio sguardo innamorato, ed ha permesso a me, un falco, di provare a far capire che esistono modi diversi di vivere oltre al tuo e la bellezza del creato, il cielo, a te, un topolino che vive a terra, l'altra parte del creato. Cielo e terra, sopra e sotto, le due parti che perimetrano la vita, lontanissime tra loro, ma che si specchiano e si guardano ogni giorno. Si, oggi so che ha sbagliato, ma lo ha fatto solo per assecondare l'amore, anche se tra creature di realtà diverse. Come il giorno e la notte si fondono solo e soltanto durante un'eclissi, dove per una volta le regole che organizzano il creato si annullano, così io e te abbiamo annullato, anche se per poco, le regole dei nostri mondi, e la terra e l'aria si sono prese per mano, come la luna e il sole, al buio, vedono per una volta la stessa cosa: le stelle e la loro spendida luce". Le due effe, di Marina Andruccioli

da "GRETA e il daimon" di Marina Andruccioli

"Lei era così: mi metteva sempre un paio di occhiali con cui mi faceva vedere le meraviglie del mondo, anche se i suoi insegnamenti non si potevano definire proprio ortodossi, ma sapeva quel che mi stava insegnando, e voleva a tutti i costi che sua figlia guardasse “oltre”, anche se io lo capisco solo ora, cosa stavo guardando. Una delle cose che adesso apprezzo dell’educazione che ho ricevuto da bambina è stata la non convenzionalità delle esperienze che facevo e che mio malgrado hanno formato la Greta che sono diventata crescendo. La mamma mi spingeva a mia insaputa ai bordi del sentiero della vita, ai perimetri delle esperienze che i bambini della mia età facevano tutti i giorni, perché a camminare al centro del sentiero, quello percorso dalla maggior parte dell’umanità, quello più battuto e comodo insomma, era troppo ovvio e banale, per lei, e di conseguenza anche per sua figlia. Voleva che io esplorassi anche il limite cespuglioso del sentiero, forse un pochettino pericoloso, della via della vita, delle mie esperienze di tutti i giorni.Ma la mamma non mi faceva notare solo le cose belle della Natura, ci teneva che io amassi anche le cose “brutte” che popolano la Natura, che comprendessi la loro funzione e non ne avessi paura. Io avevo paura dei ragni, ma la mamma mi costrinse a guardarne uno da vicino, ad osservarlo attentamente. Dopo averlo fatto, la mamma mi disse "Se osserviamo una ragnatela, ci stupiremo dalla perfezione dei giochi geometrici che la compongono, prova a pensare che la Natura non ha un concetto di bello o brutto in modo assoluto. Quello che a noi umani può sembrare un brutto e ripugnante essere è invece capace di tessere un merletto che, grazie ad un po’ di rugiada del mattino, si trasforma, come per magia, in una autentica bellezza della Natura".

La mia recensione di "PER DIECI MINUTI" di Chiara Gamberale

Chiara è una giovane donna che incontra il grande amore, quell’uomo che poi diventerà suo marito tra i banchi di scuola delle superiori. Come può accadere dopo un tratto di percorso comune le loro strade si dividono, perché lui decide di prendersi una pausa. E come spesso succede, quando salta una delle pedine che compongono la tua vita, come in un nuovo girone dantesco anche le altre le seguono: Chiara perde il lavoro, deve cambiare casa, si ritrova sola senza il rassicurante tran tran che condivideva con il marito. E quando tutto cambia all’improvviso, Chiara va in tilt e la depressione è in agguato. Si affida ad una psicologa che le da un consiglio illuminato usando il metodo che il terapeuta Rudolf Steiner usava con i suoi pazienti: ogni giorno, per 10 minuti (e non uno di più) fare una cosa nuova, mai fatta prima. Un gioco, si, per distrarsi anche, ma soprattutto, come scoprirà Chiara, un modo per vincere la paura, dribblare la solitudine, far entrare un raggio di sole, giocare con il destino e capovolgere un periodo duro della vita a nostro favore e, non ultimo, spendere 10 minuti al giorno per noi stessi. Non devono essere per forza cose eclatanti come scalare l’Everest o scrivere perfettamente l’aramaico antico, no, non è questo il senso del gioco, non si deve dimostrare niente a nessuno, nemmeno a noi stessi. Lo scopo del gioco sta nel far entrare nell’apatia di tutti i giorni un rifolo di aria nuova, ed ogni giorno, per un mese, questo piccolo (grande) esercizio porta Chiara a scoprire lati del suo carattere che non conosceva, persone e amicizie nuove, le insegna ad osservare le cose da punti di vista differenti. E il suo sentire cambia. Questo libro mi ha colpito inizialmente per il titolo (per dieci minuti cosa? Mi sono chiesta) ma poi la storia mi ha affascinato a tal punto che (nonostante io non sia in cura per depressione!!) anche io ho voluto provare e osservare con curiosità gli effetti di questo gioco sulla mia vita di tutti i giorni. Non ho copiato quello che la protagonista del libro fa (provare a fare i pancake, dipingersi le unghie di colori sgargianti o camminare all’indietro tra le altre cose) e dato che il fine del gioco è quello di uscire dai propri schemi mentali, ho voluto prendere l’idea ma non tutte le regole annesse, come il vincolo dei 10 minuti o l’obbligo temporale di eseguire questo gioco per un mese. E così ad esempio mi sono lanciata in un corso di difesa personale (io che se posso la zanzara non la faccio secca ma la esorto gentilmente a trovarsi un’altra casa in cui mietere vittime), ho accettato di tenere due lezioni di giardinaggio davanti ad un gruppo di una ottantina di simpatici vecchietti (io che rischio la sincope a parlare in pubblico, e per pubblico intendo più di tre persone che mi ascoltano contemporaneamente), ho barattato la ricetta della vera piadina romagnola con la vera ricetta di un piatto dal nome impronunciabile con un ragazzo straniero dall’aspetto “un po’ losco” che se ne stava seduto a farsi i fatti suoi su una panchina in centro e che dopo aver attaccato bottone si è rivelato simpaticissimo e molto gentile (io che ho ereditato da mia madre la riservatezza teutonica) e via di questo passo, con altre cose bizzarre che fatico a condividere! E proprio come nel libro, mi sono ritrovata a far parte di un gioco, certo, un uso guidato della fantasia, si, è stato un modo per imparare qualcosina in più su me stessa, un modo per archiviare certe finte certezze, un modo per mettersi alla prova, anche. Ma soprattutto, ed è per questo motivo che invito anche voi a giocare un po’ con la vostra vita di ogni giorno, è un modo per arricchirla e vedrete che con uno strano effetto domino verrà aggiunta ogni giorno di calore umano, di nuova consapevolezza, di quelle piccole grandi cose che ci fanno tanto bene al cuore e ci strappano un sorriso. Depressi o no, provare per credere.

INCIPIT.....

..... ci sono incipit bellissimi che preludono a libri altrettanto belli... questo è l'incipit del mio "Greta e il Daimon"..... 

 


"Mi chiamo Greta e ho sessant’anni.

Lo definisco il pomeriggio della vita. Se ti sei conservata bene  è un pomeriggio d’estate, diciamo di giugno, e di ore di luce ancora ce ne sono tante prima che arrivi la sera e sopraggiunga poi la notte.

Se invece hai scialacquato gli anni della vita come una cicala, potrebbe essere un pomeriggio di novembre, quelli in cui alle 17 c’è già il crepuscolo.

Che tradotto vuol dire che manca poco, davvero poco, al buio.

E allora puoi solo accendere la luce della speranza, oppure parlare finalmente con il tuo Daimon".


Per il mio compleanno....

 
Grazie a tutti degli auguri per il il mio compleanno!!
Sono felice perchè mi avete reso felice;
perchè ho delle rughe attorno agli occhi dovute al fatto che sorrido spesso;
perchè sono sovrappeso in quanto la mia anima è piena di amore e felicità, per cui pesa molto;
perchè ho imparato che nonostante le notti buie l'alba arriva sempre;
perchè inciampo spesso ma qualcuno che mi rimette in piedi c'è sempre;
perchè sono piena di debolezze e fragilità che mi rendono fortissima;
perchè piango spesso e non me ne vergogno;
perchè non mi prendo troppo sul serio ma prendo tutto seriamente e....

perchè ho imparato a sognare, e i sogni non te li toglie nessuno!
Buon compleanno!


E per ringraziarvi questa meravigliosa favola....

http://www.youtube.com/watch?v=7t1xjo9jcYI

 
 


 

 

I colori dell'Anima

.. e stasera sognamo un pò...

"Perché le emozioni evaporano in pensieri che sublimano poi in parole.
In quei momenti, mi riempio gli occhi dei colori dell’anima, uscendone arricchito di cromatismi che non si spiegano a parole, si comprendono d’istinto.
Questo e altro, l’anima.
Se non esistesse, in noi mancherebbe qualcosa, rimarrebbe il segno con attorno la polvere, come quando sposti un oggetto rimasto li per anni.
Ma quella polvere racconta di tanto tempo passato a vivere.
E io, ne ho vissuto, di tempo.
Ma in fondo, cos’è l’anima?
Purtroppo ancora non lo so.
Siamo certi dunque di averla, un’anima, ma non sappiamo darle una collocazione, qual è il suo posto nel nostro corpo?
Sappiamo per certo dove si trovano lo stomaco e il cuore, le mani e gli occhi.
Ma qual è il posto dell’anima, quello proprio no.
Si dice che non abbia una sede fissa perché è itinerante nel corpo, e che si sposti a seconda che si stia parlando con trasporto, e allora si posiziona nella gola, se ci si commuove migra negli occhi, se si sta facendo l’amore si accoccola sulla pelle".

Da Anima, monologo di Marina Andruccioli

Le favole.. che mi invento!!


Un numero speciale 

C’era una volta un  piccolo numero tra tanti. Era piccolo, composto da due parti, un po’ tondeggiante, con due piccoli piedi diversi tra loro e un sorriso dolce.

Dalla notte dei tempi una mano luminosa lo aveva messo al suo posto, nel calendario che da ordine e precisione al tempo e lo scandisce.

Ma non sapeva il perché.

Una mattina, sentì il suo vicino di posto che si vantava di essere appena tornato da un lungo viaggio, aveva visitato tutti i mesi del calendario ed era tornato si stanco, ma raccontava di cose meravigliose che aveva visto ma soprattutto di aver capito qual’era il suo posto nel grande cerchio della vita.

Così, il nostro piccolo numero, incuriosito dal sapere cosa lui rappresentava nel mondo dei numeri, disegnò se stesso nella casella che lo ospitava, ma aggiunse anche una scritta: torno prima che posso, appena avrò capito chi sono.

Armato di curiosità e di un fagottino contenente tutti i suoi averi (allegria, dolcezza, curiosità) si incamminò tra i numeri che componevano il suo mese, per andare oltre.

Dopo un po’ di cammino arrivò nel mese di dicembre, dove i numeri erano dorati, alcuni erano rossi a dir la verità, ma tutti cantavano e brindavano allegri.

Arrivò al 25, che rosso e commosso lo salutò offrendogli una fetta di pandoro.

Il nostro numerino gli chiese cosa festeggiava.

E lui “La nascita di Gesù bambino, è il giorno più bello dell’anno” il 25 era fiero di quello che rappresentava. “E tu” gli chiese “chi sei?”.

“Non lo so, sono in viaggio per scoprirlo”.

Il 25 gli rispose “Chiedi al 31, qualche casella più avanti. Essendo l’ultimo giorno dell’anno, conosce tanta gente, lui lo saprà di sicuro”.

Ringraziando, il numerino si avviò verso il 31. La sua casina era piena zeppa di coriandoli, e si accorse subito che era un po’ brillo.

Ma si fece forza “Ciao, 31. Sai dirmi chi sono io?”.

Dopo una spruzzata  di stelle filanti, si mise a cantare “Oh happy days” e poi lo invitò calorosamente a brindare con lui al nuovo anno.

“No grazie.” Disse il numerino “puoi dirmi però se mi conosci?”.

Il 31 lo guardò attentamente “Mah, non saprei. Io vedo tanta gente, sai, qui da me si festeggia sempre” strizzò l’occhio birichino “Prova ad andare dai numeri di gennaio, li c’è più calma dopo le feste, magari loro ti conoscono”.

Ringraziando nuovamente il numerino svoltò verso gennaio.

Si fermò a riposare in un giardino coperto di neve, e vide il numero 4 e il numero 20 che passeggiavano in silenzio tenendosi per mano.

“Salve” lo salutarono.

“Ciao, vengo da lontano. Voi per caso mi riconoscete?”.

Lo guardarono bene, ma scuotendo la testa dissero “No, mi spiace. Hai qualcosa di familiare ma non possiamo aiutarti. Prova dai numeri di marzo, sai, quelli di febbraio sono in letargo per il freddo” e lo salutarono dopo averlo abbracciato.

I numeri di marzo sono davvero strani, pensò il nostro numerino, appena arrivato.

Sarà la primavera, ma questi mi sembrano tutti figli dei fiori, pensò ancora, dato che avevano tutti delle ghirlande di fiori intrecciate tra i capelli o intorno alla vita, e sembrava che si preparassero ad una festa.

Chiese al 7, che si stava truccando “Scusa, cosa succede?”.

“Andiamo tutti alla festa di compleanno del 25. Sai, due persone che si vogliono bene festeggiano insieme il compleanno”.

“Ah, ho capito. Posso venire anch’io?”.

“Ma certo!” e infilatogli una ghirlanda in testa, lo trascinò  letteralmente alla festa.

Il nostro numerino si guardò in giro, ma non conosceva nessuno, poi vide un numero che stava decorando una meravigliosa torta, e chiese “Ciao, tu chi sei?”.

“Io sono il numero 16, e abito nel mese di aprile. Ti va di accompagnarmi a casa mia? Ho dimenticato la panna nel frigo, e mi serve per finire la torta di compleanno”.

E uscirono dalla festa per recarsi nel mese di aprile, poco distante.

In nostro numerino cominciava ad avere caldo, ma si godeva il sole di aprile. Non lo aveva mai visto.

Prima di arrivare alla casella del 16 aprile, passarono lungo tutto il mese di marzo.

La casella del numero 18 era particolarmente colorata. Era piena di giochi, di pupazzi, di matite colorate.

Sicuramente era un numero allegro e giocherellone, infatti comparve poco dopo alla finestra della sua piccola casina, aveva in testa una parrucca bionda con due codini ed un coniglio bianco sottobraccio.

Si, pensò mentre lo salutava passando oltre, era davvero giovane.

Dopo aver lasciato il 19 sull’uscio di casa a prendere la panna, si avviò mestamente trascinando i piedi, era stanco di girovagare e voleva tornare a casa.

Quando alzò gli occhi, si accorse stupito di essere di nuovo nel mese di dicembre.

Sorpreso per non essersi accorto di aver oltrepassato la sua casetta, notò di essere davanti al 13 dicembre.

Era una casella dove regnava tanto amore. Si accorse subito che era un bel numero: li si respirava amore, tenerezza e si sentì per la prima volta accolto e capito.

Provò a bussare ma in casa non c’era nessuno.

Dalle tendine alle finestre si poteva intravedere all’interno un magnifico e grande albero di Natale e tante foto sul caminetto di maiolica verde.

Decise di entrare, attratto dalle foto.

E capì.

Capì perché tutti quei numeri che aveva incontrato gli erano familiari: il 4 e il 20 gennaio tenevano per mano una piccola 18 marzo e sorridevano felici, mentre il 13 dicembre e il 16 aprile sorridevano in una foto che li ritraeva davanti a quello stesso camino che aveva davanti agli occhi, insieme ad un piccolo cane nero.

Una terza e ultima foto ritraeva i due sorridenti 25 marzo in un campo di papaveri che tenevano per mano….lui!!!

Proprio così!!

Finalmente aveva trovato la sua famiglia ed aveva capito chi era e qual’era il suo posto nel calendario!!!

Corse veloce e sorridente verso la sua casella, nel mese di novembre.

Sotto di se, prima di riprendere il suo posto, scrisse a grandi lettere rosse:

20 NOVEMBRE, COMPLEANNO DI MATILDE.
(che è la mia nipotina, mentre tutti i numeri citati sono i compleanni della mia famiglia e... il mio!!
Ovviamente, il 13 dicembre è quello della mia amata mamma...)